Antonio De Lisa- Recensione di “Conglomerati” di Andrea Zanzotto

“Conglomerati” di Andrea Zanzotto (Mondadori – Lo Specchio, Milano 2009) si compone di otto sezioni: “Addio a Ligonàs” (due sottosezioni), Tempo di roghi”, “Fu Marghera (?)” (due sottosezioni), “Il cortile di Farrò e la paleocanonica” (tre sottosezioni), “Fiammelle qua e là per i prati” (di sole tre poesie), “Isola dei morti- Sublimerie” (quattro sottosezioni), “Versi casalinghi” (due sottosezioni), “Disperse” (due poesie).

Le sezioni e le sottosezioni sono così folte e le poesie ivi contenute di numero così ridotto (negli scomparti più affollati al massimo ne troviamo otto) che è difficile parlare di un piano strutturale. La struttura certo c’è, ma si tratta piuttosto di cambiamenti di umori e situazioni che di un piano congegnato in senso architettonico.  Lo stesso impianto complessivo sembra essere un “conglomerato”, come recita il titolo della raccolta, o un insieme di “conglomerati”. Lo stesso poeta avverte che “tre asterischi a pagina nuova all’interno delle sezioni hanno la funzione di indicare un cambiamento di luogo, di tempo o di argomento. Uno o più asterischi posti sopra una poesia ne segnalano la minore o maggiore distanza rispetto al gruppo in cui è inserita”.

L’altro elemento che balza all’occhio è la presenza di più versioni di una stessa poesia, come è il caso di “Crode del Pedrè- buio umido piogge alla sera”, che viene esibita in due versioni e di altri casi, come un esercizio di variantistica interna.

Già al primo impatto, nella seconda metà della prima poesia (“Addio a Ligonàs”), intitolata “Rio fu”, troviamo alcuni elementi caratteristici di Zanzotto, come quello del paesaggio, ma rielaborati e rifusi nel senso del degrado paesaggistico: “La contrada, già Zauberkraft, / povera, sul nulla si equilibrava, volava: / ora con qualche soldo in più / piomba giù”. Basta rinominare le strade (“via Alzeimer”, “via Catarro”, “via Borderline”) per accentuarne il carattere di vecchiaia, tristezza, nevrosi, depressione.

Un altro elemento caratteristico dell’ultimo Zanzotto, a partire da Idioma, che qui viene conservato, è l’inserzione plurilinguistica (“Zauberkraft”, “inter quos ego”) che sembrano allontanare a prima vista il lettore, ma in realtà lo spingono a un più diretto contatto con la materia trattata (“via Borderline / (inter quos ego)”) – come a dire, via Borderline nella quale io stesso mi trovo. Si è spesso indicato in Zanzotto un poeta “difficile”. Certo lo è, e vedremo in che senso, ma qui è di una evidenza espressionistica. Nel paese degradato vive il poeta e ne osserva la multietnica decadenza, non senza alludere alla sua stessa decadenza e rovina.

Subito dopo, il Soggetto che fa poesia, il poeta, in veste di Soggetto che osserva più che di “io” in versione lirica, ripercorre il suo paesaggio consueto, per poi riprendere il suo sguardo sull’oggi (“Inciampando nel 3° millennio e nell’equinozio di primavera oltre ogni decibel kitsch estasi del kitsch”). Da qui capiamo l’elemento di diversità del poeta d’oggi rispetto al poeta delle raccolte precedenti. Qui Zanzotto si fa poeta del degrado contemporaneo, in versione paesaggistica e storica. Lo fa con i suoi strumenti e stilemi consueti, non certo alla Pasolini, per intenderci, ma la sua riflessione poetica è acuta e pungente (“Nell’anno dei vermi / dei vermi dei vermi e dei vermi / e del loro torpido e livido banchetto / improvvisamente svelato quasi al mille per mille / tacciono tacciono i mercatini / il mercatino così gremito di riccioli / giovani genti e voci / così – forse troppo infrondato da suoni / il mercatino sprofonda lento, ora, di ora in ora / in un silenzio / nuovo inaudito e ora udibile / basso silenzio, sottorigo di silenzio / Voci si odono rade nel gelo…”, “Silenzio dei mercatini I”).

Il paesaggio ha perso i suoi tratti di accogliente rifugio nel placare ansie e timori per rendersi irriconoscibile a chi lo attraversa come in un ininterrotto monologo interiore. Lo stesso frantumarsi e accavallarsi dei versi è la resa di uno sguardo sfaccettato e molteplice. Ma nel tessuto inquieto troviamo zone di calma in cui si dispiega tutta intera la riflessione del poeta sull’oggi:

Sulle ali di pipistrello dell’informazione

Corre e scorre e fa spaventi

L’anima torva del simbolico,

del denaro simbolico.

Da un punto di vista generale si possono notare anche in quest’ultima raccolta i tratti così egregiamente segnalati da Stefano Agosti nel saggio introduttivo al “Meridiano” Mondadori dedicato a Zanzotto nel 1999: “Le poesie e prose scelte”. In  particolare mi riferisco all’uso del cosiddetto “petèl”, “la lingua con cui le madri si rivolgono agli infanti nel tentativo di imitarne la parlata, diciamo la ‘sintassi sonora’”. Questo “balbettìo allitterante” è presente in larga misura anche in questo libro, ma meno nelle prime sezioni, dove urge la materia “storica” e più nelle successive. Per materia “storica” intendo la declinazione memoriale delle esperienze partigiane del poeta. Si veda per esempio “Roghi (1944-2001)”: “E dall’alto vedendo / i roghi di interi villaggi / da un alto che non ci proteggeva / da un alto che ci abbandonava / roghi roghi ça ira ça ira, con Toni / semiubriaco, urlavamo / nel buio attraverso il bicchiere: / Kot mit uns Kot mit uns / facendomi paroliere / mettevo in bocca in bocca all’incendiario”.  Il paesaggio veneto di oggi è visto nel suo degrado odierno ma anche attraverso la memoria del passato, in particolare dell’esperienza partigiana.

Quando si parla della poesia di Zanzotto è giocoforza soffermarsi sull’uso della lingua, rilevandone i caratteri di “petèl”, plurilinguismo (con inserzioni dal tedesco e dal latino), uso del dialetto. Come ha scritto Fernarndo Bandini in un saggio introduttivo alla già citata raccolta dei “Meridiani” in Zanzotto il predominio del significante, l’asemanticità, è “un episodio che si verifica all’interno del testo e si rende visibile proprio per il suo contrastato porsi in prossimità di parti poetiche dominate dal significato, e comunque di una incessante, anche se latente, ricerca del significato”. Credo, da parte mia, che Zanzotto si sia avvicinato come non mai al concreto contenuto della parola proprio in quest’ultima raccolta, raggiungendo testi di esplicita significazione su un piano generale di riflessione storico-esistenziale. Nella poetica del significante si sono verificati smottamenti verso il significato, mai assente ma anche mai così presente.

Lo stesso Bandini e prima di lui Agosti, ha rilevato sul piano metrico una riottosità dei versi di Zanzotto ad aderire alla misura classica dell’endecasillabo. Mi sembra che nel caso che stiamo esaminando, ma è un’intuizione che andrà verificata maggiormente e con prospezioni più approfondite, emerga con tutta chiarezza la dimensione non accentuativa ma quantitativa dei versi di Zanzotto:

fotomacchine in colori giulivi

Breve breve lunga. Non si vuole dire che i versi di Zanzotto aderiscano a una specie di “metrica barbara”, piuttosto che essi posseggono una misura interiore che detta l’alternarsi delle pulsazioni in senso naturaliter non tonale.

L’insieme di questi elementi contribuisce a dare all’impasto materico dell’ultimo Zanzotto un carattere di “sacrosadica beltà” che conquista e annette ulteriori universi alla sua ricerca del sublime perduto.

Antonio De Lisa

© Copyright 2013-19



Categorie:D01.04- Esempi di analisi poetica

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