
All’inizio del XIX secolo, il Romanticismo vede sbocciare una generazione di grandi talenti, con Vasilij Andreevič Žukovskij, Konstantin Nikolaevič Batjuškov, Kondratij Fëdorovič Ryleev e altri poeti-decabristi, Aleksandr Sergeevič Puškin, Evgenij Abramovič Baratynskij e gli altri poeti della “pleiade di Puškin”, Michail Jur’evič Lermontov. Il più famoso scrittore in prosa romantico è Aleksandr Aleksandrovič Bestužev (“Marlinskij”), mentre pioniere del realismo fu Vladimir Ivanovič Dal’, anche importante lessicografo.
Questo sarà il secolo d’oro della letteratura russa, e in particolare del romanzo, con Nikolaj Gogol’, Ivan Gončarov, Ivan Turgenev, Nikolaj Leskov, Michail Saltykov-Ščedrin, Aleksandr Ivanovič Ertel’, Fëdor Dostoevskij, Lev Tolstoj.
La poesia si sviluppa con Nikolaj Alekseevič Nekrasov, Aleksej Konstantinovič Tolstoj, Fëdor Ivanovič Tjutčev e Afanasij Afanas’evič Fet-Šenšin.
Anton Pavlovič Čechov produce sia un’opera teatrale essenziale che una serie di racconti brevi che ne fanno uno degli autori russofoni più significativi.
Le prime note avvertibili nelle pagine di A. N. Radiščev (1749-1802) trovarono eco e vigore in N. M. Karamzin (1766-1826), il quale riassunse in sé la lezione di Rousseau, di Young, di Sterne. La Russia apparve completamente aperta all’influsso francese e inglese. Karamzin, assetato di cultura occidentale, compì quello che lord Byron chiamava le grand tour e si avvicinò a tutti i grandi spiriti dell’epoca. Conobbe Kant, Wieland, Herder. Si riscaldò al pensiero tedesco, ma fu conquistato dalla sensibilità dei poeti inglesi. Ottenne uno straordinario successo con Povera Lisa (1792), romanzo in cui la schiettezza di una fanciulla semplice, venuta dal popolo, si scontra con la malizia cittadina, e si confermò più valido come prosatore che come poeta, acquisendo il merito di adottare una lingua nuova, ricca di prestiti occidentali. Con la sua ultima fatica, rimasta interrotta, regalò al patrimonio culturale del suo Paese la Storia dello Stato russo, iniziata nel 1816.
Molti furono poi i tentativi di rinnegare le nuove matrici linguistiche europee, tutti destinati però a fallire fino all’opera geniale di Puškin. Lo slavismo riguardò da quel momento in avanti una maniera di sentire, di pensare, di conservare i valori di una civiltà ostile alle contaminazioni, ma non più la forma di espressione che consentì alla letteratura russa specie dell’Ottocento di affermarsi come una delle più feconde correnti letterarie di tutto il mondo. Il dispotismo illuminato vietando la politica non fece che stimolare ogni impegno dialettico a sfociare nella letteratura. Circoli letterari, salotti, riviste, fiorirono dagli inizi del secolo in tutta la Russia. Si sparse una sete di sapere che sembrò ripetere a distanza di secoli il fenomeno della cultura rinascimentale italiana e dell’Illuminismo francese.
La Russia catalizzò, all’alba del secolo nuovo, aspirazioni latenti da secoli; V. A. Žukovskij (1783-1852) fu, se non l’iniziatore, indubbiamente il primo rappresentante di questa nuova generazione. Apparve alla ribalta con la celebrazione delle vittorie russe del 1812 su Napoleone e si affermò con la poesia dei sentimenti. Facile versificatore, adottò ogni genere di strofe e di verso.
Gli fu pari soltanto K. N. Batjuškov (1787-1855), che i contemporanei imitarono rivivendo nella sua esperienza gli influssi della scuola francese.
A.S. Griboedov
Il primo a cercare accenti più reali fu però un uomo di teatro, A. S. Griboedov (1795-1829), autore di una commedia modernissima, tuttora viva sulle scene: Che disgrazia, l’ingegno! (1824), opera improntata a una satira feroce, in versi liberi, che mise sotto accusa tutta l’ipocrita alta società moscovita, ritratto incisivo di un mondo assurdo che Griboedov rinnegò e che abbandonò, andando a una morte prevista, si direbbe addirittura profetizzata, in Persia, ove il suo incarico e la sua sfiducia nella sterile ribellione dei decabristi lo costrinsero.
I.A.Krylov
La Russia era ormai pronta a dare il maggior autore e chiuse il suo ciclo francesizzante con I. A. Krylov (1768-1844), favolista straordinario che certamente trasse da La Fontaine la sua ispirazione, staccandosi da lui nell’adattamento della storia per attingere a una realtà sociale e popolare che ha fatto del suo genere un tema irripetibile e insuperabile.
A. S. Puškin (1799-1837) appare in questo momento nel panorama della letteratura russa come “il genio nazionale”. In lui si unirono tutti gli aspetti della letteratura e della poesia in un sapiente e armonico equilibrio che fece della sua opera il manifesto della corrente romantica e l’ispiratore del realismo. Anch’egli contrastato dal potere per i suoi versi anticonformisti, per la simpatia verso i decabristi, maturò nel forzato ritiro nella tenuta familiare un’arte limpida e finissima che si era annunciata con il poemetto Ruslan e Ljudmila (1820) e i poemetti meridionali scritti tra il 1821 e il 1824. Nel 1831 pubblicò la tragedia Boris Godunov, superamento del Romanticismo e inaugurazione del realismo in poesia. Nello stesso anno terminava l’Eugenio Oneghin, romanzo in versi che il grande critico Belinskij definiva “un’enciclopedia della vita russa”.
La grande anima russa sembrava trovare nei personaggi nati nella fantasia di Puškin illuminanti ritratti storici, mentre la sua prosa evocava l’idea di una società con una nettezza insuperabile per realismo psicologico e quadro d’ambiente. Poeta e scrittore eccelso, Puškin nel 1831 compose le “piccole tragedie”: Mozart e Salieri, Il cavaliere avaro, Il convitato di pietra, Il festino durante la peste e i Racconti di Belkin, cui seguirono la Storia della rivolta di Pugačëv, La figlia del capitano e La dama di picche, altrettante pietre miliari della narrativa russa, che ebbe il suo grand siècle in quello che storicamente può invece essere definito il secolo crudele, per le orribili condizioni sociali del Paese che proprio nella letteratura scoprì l’idea del riscatto.
Intorno a Puškin, morto troppo presto a causa di un inutile duello, si formò un gruppo di autori impegnati, romantici, A. A. Delvig (1798-1831), E. A. Baratynskij (1800-1844), N. M. Jazikov (1803-1846), A. I. Poležaev (1804-1838), A. Kolkov (1809-1842) i cui nomi sarebbero oggi certamente più celebrati se non fossero vissuti nell’ombra di quel grande.
Su tutti, romantico per eccellenza, s’impose M. Ju. Lermontov (1814-1841), romantico anche nella sua morte, simile a quella di Puškin, simile a quella del protagonista del suo capolavoro Un eroe del nostro tempo, profetizzata come quella di Griboedov. Del suo amato Puškin egli accolse solo l’amore per la natura, i grandi temi dei contrasti, il disperato anelito alla conquista di tutto, la sete dell’anima alla libertà assoluta, celando in tutta la sua opera, dai poemetti Il demone e Il novizio, al dramma Un ballo in maschera, un latente bisogno di autodistruzione, un ardore di immedesimazione nel gran tutto come in un fuoco purificatore.
L’amarezza e l’esaltazione di questo mondo eccitato dalla fantasia si andarono placando in N. V. Gogol (1809-1852), il maestro assoluto del realismo. Egli si affacciò alla narrativa con dei racconti pieni di vita, in cui si respirava la natura (Veglie alla fattoria presso Dicanca, 1830-32), poi accarezzò la sensibilità popolare con il sanguigno e corposo (1835). Fin qui Gogol fu caro a tutti, ma improvvisamente, nello stesso anno, diede il via ai Racconti di Pietroburgo, che concluse nel 1842 con il capolavoro Il cappotto, e rappresentò quell’Ispettore generale (1836) che lasciò esterrefatta tutta l’alta borghesia russa, sommergendola nel “ridicolo”. Capolavoro in senso assoluto, l’Ispettore generale scatenò contro di lui una reazione gretta e infame. Gogol lasciò la Russia e scrisse a Roma quasi tutte Le anime morte (pubblicate nel 1842). La Russia venne anatomizzata in tutti i suoi mali secolari alla maniera di Flaubert. Ma se Flaubert sembrava guardare dal di fuori la sua eroina, Gogol appariva come protagonista e vittima in quella straordinaria galleria di ritratti che rivelava al mondo la miseria di un Paese dove il popolo languiva senza speranza. Puškin dopo aver letto la prima parte dell’opera esclamò “Com’è triste la nostra Russia!”. Gogol stesso era angosciato e soffriva ormai di mania di persecuzione tanto che dopo aver scritto una seconda parte di Le anime morte la bruciò in una notte di delirio, per morire subito dopo.
Se la Russia con Gogol aveva fatto il suo esame di coscienza, con A. I. Herzen (1812-1870) scoprì i suoi ideali. Con il suo libro Passato e pensieri (1861-67), testimonianza unica, scritta “con il sangue e con le lacrime” in cui palpita tutto l’umano dolore causato dall’ingiustizia, Herzen seppe dare l’indicazione per un più alto senso di dignità umana.
Il grande filone del realismo intanto si arricchiva di nomi prestigiosi: I. S. Turgenev (1818-1883), F. M. Dostoevskij (1821-1881), I. A. Gončarov (1812-1891), M. E. Saltykov-Ščedrin (1826-1889), L. N. Tolstoj (1828-1910) e la poesia si affidava ad A. A. Fet Šenšin (1820-1892), F. I. Tjutčev (1803-1873), N. A. Nekrasov (1821-1877); la critica, scomparso Belinskij, operava con N. A. Dobroljubov (1836-1861) e N. G. Černyševskij (1828-1889), anch’egli peraltro eccellente romanziere. Improvvisamente tutta l’amarezza che si era andata accumulando in questo popolo, che sopportava da sempre la pena di vivere, fluì in narrazioni che aggredivano il cuore e serravano la gola in una realtà incancellabile. Gončarov pubblicò il suo Oblomov nel 1859. La Russia vi si scopre inerte, passiva, incapace di vivere e di rinunciare a vivere. Turgenev dal 1847 al 1875 pubblicò le Memorie di un cacciatore, raccolta di storie la cui unità era data dal narratore che raffigurava un’umanità e un mondo dolente in cui persino i sentimenti più delicati finivano contaminati o in tragedia, suscitando polemiche infinite con Padri e figli, romanzo in cui lo scontro delle generazioni divenne il simbolo di una Russia superata, destinata ad aprirsi per forza all’uomo nuovo. Ai nichilisti, agli idealisti toccava rifare la Russia, quella Russia che A. N. Ostrovskij (1823-1886) nei suoi drammi, il più alto dei quali resta La foresta (1871), vede rispecchiata nel crollo della nobiltà e nella vitalità del popolo creatore di forze nuove. Gli fece coro il “poeta della vendetta e del dolore”, N. A. Nekrasov che con il poema Chi vive bene in Russia? (1865-76) giunse a conclusioni sconsolate sulla disperazione del popolo, ribadita in Gelo, naso rosso (1863). Militante del riscatto popolare, Nekrasov fu anche l’editore del Sovremennik (Il contemporaneo) e degli Otečestvennye Zapiski (Annali patri), periodici che propugnavano il progresso e la libertà. Attraverso Černyševskij e il suo romanzo manifesto Che fare? e M. E. Saltykov-Ščedrin con il suo I Pompadour e le Pompadour (1873), quadro della disgregazione del sistema sociale, e soprattutto con La famiglia Golovlëv (1873-74) si è nel fulcro di un’attività letteraria che ha avuto la sua più alta espressione nei due massimi narratori del secolo: Dostoevskij e Tolstoj.
L’uno è il grande interprete delle inquietudini dell’animo, dei conflitti di coscienza, delle lacerazioni dello spirito, l’altro è il grande cantore della vita, l’analizzatore dei valori dell’esistenza, il pittore di una realtà che si espande in una pacificazione immanentistica dell’essere come forma operante nel grembo della natura. Partito dalla tematica sociale, Dostoevskij, dopo una profonda crisi religiosa e sotto l’impulso di una forte tendenza all’introspezione, passò essenzialmente all’analisi etico-psicologica della personalità più profonda dei personaggi, pur non cessando di interessarsi ai problemi sociali, giungendo a esiti che sembrano quasi in contraddizione con la sua matrice realistica e dando inizio al moderno romanzo europeo. Scrittore fecondissimo, spinto da una vita di debiti a scrivere ogni notte pagine e pagine per gli editori esigenti, dal 1846 al 1880 pubblicò quasi senza interruzione Il sosia, Memorie della casa dei morti, Diario di uno scrittore, Delitto e castigo, Memorie dal sottosuolo, L’idiota, I demoni, I fratelli Karamazov. C’è in tutti l’elemento del romanzo d’appendice. C’è in tutti il crimine, ma c’è soprattutto in tutti il rapporto del criminale con il suo atto, pensato e voluto. L’irrefutabilità del ragionamento criminoso si scontra sempre con la legge del cuore. Slavofilo convinto, Dostoevskij sostenne che l’ortodossia era la religione della libertà contro il cattolicesimo, religione del dogma. Egli vede l’amore di Dio come l’unica fonte di salvezza e la rigenerazione dell’uomo attraverso la sofferenza accettata come un carattere sacro. Come Dostoevskij, anche Tolstoj si volse alla ricerca della verità redentrice. Considerato il massimo narratore russo, Tolstoj concluse con la sua opera il ciclo del grande realismo ottocentesco. Nel 1851 cominciò a scrivere le sue prime opere importanti, nel 1868 pubblicò I racconti di Sebastopoli in cui evocava gli undici mesi della difesa della città del Mar Nero. L’opera è un preludio alla moderna narrativa di guerra ed è già in un certo senso l’anticipazione della tematica che riappare in Guerra e pace (1878), il capolavoro dello scrittore. Nel contesto dei grandi avvenimenti storici della campagna francese di Russia del 1812 s’intrecciano le sorti di due famiglie, ma ciò che scaturisce dall’opera straordinaria è l’amore alla vita, l’esaltazione della grande anima russa, la codificazione del principio che la gioia è nell’essere, nel lasciarsi vivere con animo schietto e generoso: romanzo epico, su cui sovrasta come un cielo immenso la fiducia nella grandezza del cuore umano, che per aver diritto alla felicità deve però conservarsi puro. Ciò spiega la tragedia di Anna Karenina (1875-77), che risponde al concetto tolstoiano di lasciarsi vivere ma che va inesorabilmente alla tragedia perché ha preteso di edificare la sua gioia sul dolore altrui, su quello del marito tradito e del figlio trascurato. Sono concezioni etiche e sociali che Tolstoj chiarì in Confessione (1879-82), che affrontò nel dramma La potenza delle tenebre (1886) e che riprese da ultimo in Resurrezione (1899), rivelando che anche la bestialità dell’uomo trova possibilità di redenzione nella confessione e nell’espiazione. Mistico della non violenza, della non resistenza al male, predicò il ritorno alla semplicità contadina, condannò l’industria causa “della schiavitù del nostro tempo”, la proprietà oltre al bisogno, invocò l’amore fraterno e attuò la semplicità di vita, in contrasto con la famiglia che lo assillava e contrastava. La sua predicazione non cadde nel vuoto. V. G. Korolenko (1853-1921) credeva in Tolstoj e nonostante le durissime prove che gli vennero imposte conservò la sua fede nell’umanità. Il sogno di Makar (1885) è un grido straziante. Anche Dio perdona il contadino che ha molto peccato e molto sofferto. Ma dopo questi profeti d’amore la Russia cadde nel pessimismo. Ne sono un esempio V. M. Garšin (1855-1888) con Il fiore rosso (1883), specchio dello sconforto della sua generazione, e F. Sologub (1863-1927) i cui personaggi odiano addirittura la vita.
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